Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 16 maggio 2012

L'essenza del calcio


Prossimo post giovedì 17 maggio


Reblog: giugno 2010
Gli è che il calcio è molto più di uno sport. E i mondiali molto più di una competizione. No. Non voglio fare il sociologo. Né l’economista. Non voglio parlare di show business né lamentarmi perché si parla di eliminazione come tragedia nazionale quando i problemi sono altri. Neppure affermare che il calcio ha sostituito la guerra e che quindi…
Vedo spesso su giornali, blog e social network commenti sdegnati di chi stigmatizza aggettivi e tempo dedicati al flop, e si lancia in lunghe fiLippiche sui veri problemi che assillano il paese e il mondo. Tirate sociologiche, analisi politiche, antropologiche, globalistiche e via discorrendo.
 Mi irritano perché, pur sostenendo una sostanza reale e corretta, puzzano di intellettualismo sociale e dimostrano, a mio parere, una totale incomprensione di ciò che calcio e mondiali sono e fanno.
E’ per esempio irragionevole non considerare che i mondiali scandiscono il tempo assai più che crisi economiche, guerre o olimpiadi. Lo cantava anche Venditti: ricordate? Era l’anno dei mondiali quelli del 66….  E chi non ricorda dove era e cosa faceva e con chi nelle finali degli anni in cui era capace di intendere e di volere? Dal 70 in poi le ricordo praticamente tutte! E’ un tassello nel tempo che va ben oltre l’evento sportivo. Diventa un parente caro, una ricorrenza affettuosa della quale si sente la nostalgia.
Tra gli amici della terrazza ricordiamo ancora quella volta, mondiali USA 94, in cui un amico, poco interessato allo sport della pedata, si addormentò durante i minuti finali di Italia Bulgaria, con risultato in bilico e partita tesissima.
I Mondiali parlano al cuore, scuotono, radunano, riaccendono. Insomma per una volta uniscono invece di separare. Perché il tifo è una delle poche cose rimaste che si radica nel cuore, e scuote. Irrazionale, che non richiede spiegazioni, infiamma. E ogni quattro anni, quando lo sport si fa evento mediatico, tutti, anche le signore, ne vengono influenzati. So bene che le tragedie sono altre, che andare a casa dopo il girone iniziale non è nemmeno paragonabile alla chiusura di un negozio con conseguente licenziamento del personale. Che va di moda definire bamboccioni straricchi e viziati e calciatori. Ma questo che cosa c’entra?
C’è una valvola di sfogo nel parlare di calcio, di vittorie e sconfitte, per lungo tempo. Non è obnubilazione. E’ mediazione culturale. E’ dare riposo al fisico e al cervello in un momento in cui si può distogliere, per un attimo, dai reali affanni di una vita, da un millennio che nei suoi primi dieci anni ha saputo regalarci solo crisi a grappoli e morti e disperazione, insieme con sofferenze e tribolazioni. Lasciateci inventare video e canzoni su Macello Lippi e i suoi branca leoni.
E poi comincio ad esaurire la pazienza per questi cultori del lamento, del benaltrisimo, che di fronte ad ogni cosa si stracciano le vesti urlando che il problema è ben altro, che il problema è a monte, che il problema è che non pensiamo abbastanza al problema. Che lo facciano loro per tutti e ci trovino le soluzioni invece che continuare ad additare con spocchiosa prosopopea e superiorità antropologica che cosa noi facciamo di sbagliato. Anche perché quando  chiedi loro di darti una soluzione, se ne escono con banalità così sconcertanti che mettere un trentasettenne bollito al centro della difesa al confronto sembra una idea innovativa e geniale. Come una mucca viola. Ma di questa parleremo un’altra volta

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