Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 7 novembre 2011

C'è diritto e diritto

Prossimo post giovedì 10 novembre





Firenze. Guido in una stradina stretta. Sto arrivando ad un semaforo. Rosso. Mentre freno vedo che una vettura sta cercando di immettersi nella stradina, è parcheggiata tra due alberi. Faccio una breve retromarcia per permettergli di entrare.
Poco dopo la scena si ripete. Quasi identica: freno, retromarcia, lascio passare. Stop.
Già. Stop. Perché nessuno dei due accenna il benché minimo segno di ringraziamento.
Non dico un mazzo di fiori. Non dico scendere e stringere la mano. Basta alzarla quella mano in quel segno tipicamente automobilistico che vuol dire scusa e grazie al tempo stesso, forse li distingui dall’inclinazione del capo.
Ecco. Ammettiamo che non li ho visti io quei gesti, che me li sono persi. Ammettiamo.
Ma anche no. Che proprio non li hanno fatti.
Evvabbé, chettefrega…lasciasstare.
Sì, ma non mi concedo di non riflettere.
Perché oggi stiamo dando per scontato che tutto ci sia dovuto. Non è stata presa per gentilezza la mia, ma per il riconoscimento di un loro diritto.
E temo che questo atteggiamento incancrenito ci stia percolando dentro, lo stiamo assimilando per osmosi in un mondo che ci urla che tutto è nostro diritto: lo sconto, l’eleganza, la bellezza.
E che abbiamo motivi di superiorità nei confronti degli altri. I nostri diritti primi.
E ho deciso di combattere. Ferocemente. Astutamente. Violentemente.
D’ora in poi sarà mia cura ringraziare con evidenza e ostentazione tutti coloro che mi sembrerà avranno fatto un piccolo gesto per me, anche innavertito: lasciare il passo, rallentare, frenare, far passare…. 











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